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Il Feudo

L' azienda nasce nel 2010 quando fu rilevato l’ormai quasi abbandonato casale dei “Malazzeni” (termine siciliano per “magazzini”) e la tenuta in cui sorge. La struttura è ubicata sull'ultima balza coltivabile del Vulcano, fra i boschi della Cerrita e il paese di Sant’Alfio, tra l’Etna e il mar Jonio.
Il fabbricato utilizzato per l'attività ricettiva, ricco di storia e di tradizioni, è stato recuperato con un'attenta ristrutturazione conservativa, rispettando le forme originali e la semplice, severa architettura dei casali di montagna etnei, senza rinunciare al comfort e alla funzionalità. Il casale ingloba l’originaria Chiesetta dei Magazzeni (oggi restaurata, rispettando la tradizione delle chiese rurali).

La Chiesetta

La chiesetta, meta di processione il 3 novembre di ogni anno, è un luogo leggendario:  nel 1928, infatti, un'improvvisa quanto violenta eruzione rischiò di distruggere per sempre il podere dei “malazzeni”. La lava, che fluiva velocemente attraverso i boschi della “Giarrita”, minacciava sia il feudo che il vicino abitato di Sant’Alfio, che sembrava destinato ad essere completamente sommerso. Di fronte all’imminente catastrofe, all'alba del 3 novembre di quell’anno, la popolazione portò in processione le sacre reliquie dei santi patroni del luogo Alfio, Filadelfio e Cirino dalla Chiesa Madre del paese di Sant'Alfio fino all’ultimo baluardo della fede: la chiesetta dei “malazzeni”,sfidando la colata lavica che si avvicinava minacciosa, forti della protezione dei tre santi.

Si gridò al miracolo nel momento in cui la processione arrivò davanti alla  chiesetta del feudo: le preghiere dei fedeli, la grazia del Santo o la grazia del vulcano, compirono il miracolo della natura fermando la colata -che si può vedere ormai pietrificata per sempre alla destra del cancello d’ingresso aziendale- aprendo poi delle bocche a circa 600 metri più a nord del casale, da cui fluirono altre colate devastanti che distrussero il paese di Mascali.

Nel 1958, in ricordo dello scampato pericolo, fu costruita all'esterno del fondo, l’odierna chiesetta dei Magazzeni.

La Storia

La dimora, utilizzata oggi per l'attività ricettiva, costituiva il centro aziendale nevralgico del feudo della Giarrita, appartenuta ai Marchesi del Toscano, la cui casata affonda le proprie origini ai tempi della conquista normanna della Sicilia. Il suo capostipite fu Roberto d'Embrun, appartenente al ramo dei conti di Barcellona e Provenza, partecipò alla conquista normanna della Sicilia condotta da Ruggero d'Altavilla intorno al 1070.
La famiglia giunse a possedere, agli inizi del Seicento, 48 diversi feudi con mero e misto imperio, (quindi con il potere di dettar legge nel proprio feudo) e, nel corso della sua storia, ottenne 170 feudi principali, avendo diritto a sei seggi ereditari nel parlamento siciliano, di più cioè di qualunque altra famiglia di Napoli o di Sicilia.
Al momento dell'abolizione della feudalità, all'inizio del XIX secolo, la famiglia possedeva 80 000 ettari di territorio e cinque seggi ereditari al Parlamento, undici fra città e terre in vassallaggio con circa 20 000 sudditi, ventisei feudi. Fra questi feudi, quello della Cerrita (o “Giarrita”), così chiamato per le vaste foreste di quercia che inglobava, era esteso oltre 2500 ettari. Nel feudo si potevano identificare tre zone, distinte dalla loro altitudine: nella più bassa era ubicato il primo nucleo dell’abitato di Sant’Alfio, dapprima poco più che una parrocchia ma col tempo cresciuto fino ad invocare l’autonomia dai feudatari; la fascia più alta, invece, conteneva l’immenso bosco della Cerrita, ricchissimo di alberi di pregio che, già dal medioevo, erano stati oggetto di grande sfruttamento per costruire le flotte navali dei tanti dominatori della Sicilia. Una lunga strada lastricata conduceva dal mare, dove si trovavano i cantieri navali, fino al feudo, terminando a 200 metri ad est del nostro casale, nei pressi del grande abete; su di essa buoi e muli trascinavano i grandi tronchi di castagno e quercia, nerbo delle navi da guerra di tante potenze navali, dal 1100 fino a due secoli fa
Nella parte mediana del feudo, fra gli 850 e i 1200 metri di quota, i Marchesi del Toscano, spinti dalle pressioni degli abitanti del paese capitanati da alcuni tenaci parroci, acconsentirono ad una divisione delle terre in masserie autosufficienti, che finirono col colonizzare tutta questa parte coltivabile del feudo. Con enormi sforzi, massari e contadini coltivarono le aspre terre vulcaniche e costruirono decine di piccoli casali, versando ogni anno un decimo del raccolto ai feudatari. Le produzioni venivano stivate nei depositi del feudo, posti accanto al casale del Marchese, in dialetto chiamati “malazzeni”, oggi magazzeni, da cui il nome della contrada. Grano, segale, nocciole, vino, olio, venivano ammassati e poi rivenduti o condotti nelle dispense catanesi dei feudatari. La parte principale del casale fu edificata, forse su nuclei preesistenti, nella seconda metà del ‘700; l’edificio era composto da una piccola chiesetta privata e da alcuni ambienti abitati, di cui uno riservato al “Cavaliere” quando veniva ad ispezionare il feudo. In quell’epoca di viaggiatori illustri e di briganti, il casale era un sicuro rifugio e costituiva una delle ultime basi comode prima di inerpicarsi per i sentieri che portavano fin sulla vetta del vulcano. Non è difficile immaginare per l’antica via della “traina”, il transito di celebri viaggiatori, che non potevano perdere una delle tappe più importanti del “gran tour” della Sicilia, l’Etna. Fra questi, anche Jean Houel, che immortalò in un celebre acquerello, oggi custodito all’Hermitage di San Pietroburgo, il maestoso castagno dei cento cavalli. Nel 1855, al casale venne aggiunto un palmento e gran parte della tenuta venne coltivata a vigneto. Negli ultimi decenni dell’800 e fino al secondo dopoguerra, la tenuta vide come proprietario il famoso cavaliere Antonino Paternò Castello (1852-1914), che fu sindaco di Catania, deputato, due volte ministro degli esteri ed ambasciatore italiano a Londra e Parigi, con ruoli fondamentali nelle più importanti congiunture diplomatiche internazionali; a lui è dedicata la strada che attraversa l’azienda giungendo fino al santuario.
Più tardi, abbandonatasi progressivamente la vite, negli anni ’50 dello scorso secolo le colture vennero riconvertite a nocciolo per opera dell’Ingegner Priolo, imparentatosi con gli eredi dei feudatari, il quale curò l’azienda, cui era molto legato, fino alla morte.
Nelle case del feudo si viveva tutto l’anno: massari, contadini, “ciurme” di zappatori, vendemmiatori e raccoglitori di nocciole hanno per ben trecento anni trascorso la loro vita o i momenti più salienti delle attività contadine all’ombra dei grandi castagni che ombreggiano la corte del casale, attingendo l’acqua dalla grande cisterna, che ha costituito la più importante riserva d’acqua della zona, vero punto di riferimento per tutti i viandanti, i pastori e gli abitanti delle piccole masserie che punteggiavano il bosco.